Ogni relazione tra persone e brand nasce da un punto di contatto: un regalo, la homepage di un sito, una vetrina, un post sui social, una telefonata al customer care o una conversazione durante un evento. A volte non ci facciamo nemmeno caso, ma in realtà è proprio in quel momento che si decide gran parte del futuro della relazione: la prima impressione conta, e molto più di quanto pensiamo.

I touchpoint non sono semplici passaggi tecnici o momenti di interazione isolati. Sono luoghi di esperienza, spesso persone. Oggi più che mai vivono dentro un ecosistema complesso in cui il confine tra fisico e digitale è diventato sottile, spesso non esiste. Visitare un negozio, parlare con un tecnico, scansionare un QR code, partecipare a un evento e condividerlo in real time su LinkedIn, chiedere assistenza a un chatbot che poi passa la conversazione a un operatore: sono tutti esempi di una stessa trama di punti di contatto che devono dialogare tra loro.

Non si può pensare ai touchpoint come a mondi separati. In passato era così: la pubblicità in TV, il punto vendita, la brochure aziendale. Ognuno gestito per conto proprio, senza troppi collegamenti. Anni fa per una multinazionale abbiamo sviluppato una campagna sul PV per un detersivo piatti liquido all’aceto, mentre altri lavoravano sullo stesso prodotto in polvere, altri sul liquido e polvere ma al limone. Altri tempi.

Oggi però le persone vivono percorsi fluidi. Scoprono un brand online, lo provano in un luogo fisico, si informano sui social, acquistano tramite app, chiedono supporto in chat. Se questi momenti non parlano tra loro, la sensazione che rimane è di frammentazione. È come se qualcuno ci parlasse con più voci diverse, ognuna con un tono e un lessico propri.

La forza dei touchpoint emerge proprio quando diventano rete. Quando ogni contatto rinforza l’altro e contribuisce a creare un’esperienza riconoscibile, coerente e possibilmente memorabile. Qui entra in gioco la progettazione. Così come ci insegna Watzlawick che “non si può non comunicare”, allo stesso modo non si può non avere una user experience. Anche il silenzio, anche l’assenza è esperienza. Se non conosco un brand, la mia UX è zero: neutra, vuota, ma già esiste. Se invece entro in contatto con un touchpoint mal progettato, la mia esperienza è negativa e rimane impressa. Solo quando c’è attenzione, coerenza e cura, la UX diventa positiva e apre la strada a una relazione.

In questo senso i criteri che contano non sono mai puramente tecnici. Certo, servono qualità e velocità: il sito deve funzionare bene, la risposta del customer care deve arrivare in tempi ragionevoli. Ma servono anche competenza e cultura: persone preparate e un sistema di valori coerente con ciò che il brand vuole essere. E ancora: la capacità di generare un’esperienza emotiva, non solo funzionale. Infine, la misurabilità: senza dati non si impara e non si migliora.

Pensare ai touchpoint come esperienze successive è riduttivo, spesso sono contemporanee. Meglio immaginarli come tappe di un viaggio, un percorso che non finisce mai e che richiede di essere costantemente programmato, aggiornato, ripensato. È questo il filo rosso che guiderà la serie di articoli che stiamo per condividere. Nei prossimi appuntamenti parleremo di come i touchpoint diventano strumenti concreti per generare lead, per costruire customer ed employee experience efficaci, per rafforzare l’identità di marca, per alimentare il tutto con contenuti e per orchestrare l’intero ecosistema attraverso MarTech e Intelligenza Artificiale.

In altre parole, partiremo da un punto e arriveremo a un sistema. Da un contatto isolato a una rete viva e integrata.